Il museo

Casa di poeta – Casa di poesia

Il lascito della casa alla comunità dei posteri era già in molte pagine di Marino Moretti: «è in queste vecchie stanze, è nei mattoni corrosi, è nei segni di umidità alle pareti, è nel cortile negletto, nel cigolio delle porte (a ognuna il suo cigolio), nella vecchiaia della cucina, nella sedia zoppa e nel quadro storto, nell’invalidità dei mobili ovunque spaiati, in ognuna di queste povere piccole cose ch’io potrò ritrovare la verità di me stesso e dell’arte», o, per dirla ancora con un verso, «ciò che importa di me rimane qui dentro».

Con questo assunto, Casa Moretti rimane un luogo straordinariamente ricco di senso, non solo di testimonianze. Moretti aveva coltivato, senza mai dichiararlo troppo apertamente, il desiderio di farne qualcosa di imperituro, influenzato, certo, dall’ideale dannunziano di destinare la propria dimora a monumento di se stesso e dell’arte, ma nella dimensione più “crepuscolare”, dimessa e ironica. Concepito – più che come mausoleo – come “rifugio” di bellezza e di affetti a compensare quell’esigenza di difesa per sé e per gli oggetti del passato capaci di perpetuare il racconto di una vicenda umana e poetica, la casa avrebbe custodito e insieme continuato a narrare la vicenda letteraria di Moretti che affermava «Che parli anche per me, questo s’intende».

Per questo la visita a Casa Moretti rimane una esperienza immersiva nella poesia, la narrazione del percorso museale attraverso le stanze è un rimando continuo di citazioni dell’opera in verso e in prosa di cui occorre percepire l’eco.

Esclusivamente per me, in Diario senza le date, 1974

La mia vita non fu tutta esemplare,
ma non fu gesta, richiesta, protesta.
La mia divisa non fu più che questa:
in casa mia scrivo come mi pare.

Cronaca dell’io, in Le poverazze, 1973

«È vero. Questa cronaca
delle pareti chiuse,
delle porte che gemono,
dei cassetti che stridono,
dei tarli che non tacciono,
dei due gatti che ronfano,
del letto ove son nato in altro secolo,
dello specchio che dice ogni giorno: “eccolo
che si lava la faccia”;
[…]
è autobiografia?»
«Autobiografia! autobiografia!
Sei la cosa più triste che ci sia…»

La casa dove sono nato, in Diario senza le date, 1974

Lento canale urbano
coi capanni qua e là su palafitte,
e le case stan ritte
tenendosi per mano.
Ecco la mia casetta di paese.
Perdute ch’ebbe le compagne a lato
resse in cattivo stato,
si scosse e si riprese
con sagacia esemplare.
Povera casa dove
nacque mio padre nel ‘49
(io nell’’85)
lo sa, lo sa com’egli andò per mare,
lo sa, lo sa che a scuola io m’ebbi i cinque.
Tutto sa. Qualche cosa
le han detto intorno: molto
ha capito da sé:
ha saputo, s’intende, anche da me.
È intelligente. È furba. È coraggiosa.
E per quel che le han tolto
le guerre ha pur sofferto la sua parte:

più di me forse, molto
più del padrone e della sua bell’arte
cui essa rende onore.
La casa sa ch’io sono uno scrittore,
sa come scrivo, conosce il mio stile:
come lettrice è fin troppo gentile
e, direi quasi, tenera di cuore.
Lei di mattoni divisi per arnie
sa che il cuore è di carne.
C’è un campanello alla porta di strada.
Dietro la porta un cane, un gatto, un cuore.
Anche un televisore,
il testo della piada,
l’immagine più rozza del patrono,
e un mugghio e un miagolìo
e infine… anch’io ci sono.
Strano, ci sono anch’io.

Il percorso museale

La biblioteca

Prima di ospitare la biblioteca dello scrittore, ai tempi del nonno Salvatore (1818-1892) e del padre Ettore (1849-1928), questa stanza era occupata da una bottega, in cui, Moretti racconta, abbia sostato a rifornirsi anche Garibaldi nel suo rocambolesco passaggio a Cesenatico del 1849. Riannessa al resto dell’abitazione alla fine degli anni Venti, la sala conserva le nicchie originarie dov’è collocata una parte dei volumi della sua biblioteca e ospita, nella disposizione originaria, un arredo proveniente da Firenze. Moretti l’acquistò presso alcuni antiquari, ma altri pezzi giungono dalla casa di Costa San Giorgio dell’amico Aldo Palazzeschi, lasciata per trasferirsi a Roma.

I grilli di Pazzo Pazzi, 1951

La bottega dove Garibaldi si rifornì, passando da Cesenatico nella sua ritirata da Roma del ‘49, e poi dalla Repubblica di San Marino, e si rifornì, pare, di salami e prosciutti, e non credo pagasse in contanti, era da almeno vent’anni la biblioteca […] dove in verità non figuravano libri rari, edizioni di qualche pregio, ma sì libri molto comuni, benché leggibilissimi e godibilissimi, come s’addicono del resto a un’ex-pizzicheria. […] La biblioteca fu quella. Si trovò subito che le vetrine e le mensole del salsamentario si mutarono con abbastanza arguzia in scaffalature di libreria di modesto studioso dell’ultimo Ottocento letterario italiano e magari francese.

Libreria casalinga, in Le poverazze, 1973

«Quanti, in casa, i tuoi libri? cinquemila?»
«Questo non so. Mi son guardato bene
dallo schedarli e a saper dove sono.
Tutto è stato per me metterli in fila.
Non c’è rigore. Quel che viene viene.
So solo che qua e là ce n’è uno buono.»
«Tutti letti?» «Sei matto? La trafila?
È molto se ne ho letto uno su dieci.
Qualcuno invece l’ho letto e riletto
ed anche amato. L’ho portato a letto.»
«E tutto il resto?» «Il resto son le feci.»

Il tinello

Come nella biblioteca, la sala mantiene nel suo assetto originario il prezioso mobilio d’antiquariato proveniente da Firenze, fra cui campeggiano l’armadio a due corpi e la credenza e la cassapanca con i piedi «a zampa».
Alle pareti sono recentemente tornate due opere di Filippo De Pisis, una delle amicizie legate all’arte dello scrittore. In origine i quadri dell’artista ferrarese presenti a Casa Moretti erano numerosi, ma per varie vicende nessuno di questi era rimasto su queste pareti. Dopo i gravi danneggiamenti causati dai bombardamenti del porto canale nel 1944, la casa, che aveva comunque preservato gran parte dei materiali, «i mobili, gli utensili, i quadri, i libri, i “ferri del mestiere”», necessitò di una onerosa ristrutturazione, finanziata con la vendita di numerosi quadri dell’amico Pippo. Altre opere furono regalate agli amici più intimi, altre rimaste in capo agli eredi. Nel 2008 quattro di queste sono rientrate e due nature morte, datate 1938, ornano la sala.

Il tempo felice, 1929

Torno di lungi dopo aver sostato in case assai belle, soffici, comode, legni e stoffe preziose, preziosi libri, rilegature, poltrone immense, mobili “con le zampe” e alle pareti i ritratti degl’illustri contemporanei con dediche autografe, e allora quasi non mi spiace d’esser povero e, perché povero, d’aver lasciato queste vecchie stanze com’erano, press’a poco, il giorno in cui nacqui. Non mi spiace di non aver avuto orgogli, povera casa, per te. Scricchiolavi, e un giorno coi miei risparmi t’ho rassettata, ma senza ringiovanirti troppo, senza abbellirti, senza appenderti al collo un monile. E ora mi sei più cara perché mi appari immutata così, vedi, come non muta l’anima mia.

La chiave, in Tre anni e un giorno, 1971

A sedici anni ero già molto bravo.
Ero come un uccello,
un capinero, un passero, un fringuello
fuor della gabbia: volavo, volavo.
Ma un uccello non sa che sia la chiave
di casa. Io l’ho voluta.
L’ho voluta in città come una clava,
con calma risoluta,
senza prego né lagno.
Ero un uccello o un albero,
un leccio, un tiglio, un frassino, un castagno.
O pianta rampicante ero, un po’ giucca,
bignonia, muraiuola, edera, zucca.
La stanza ammobiliata
consente, sì, la chiave al giovinetto
che sotto un altro tetto
gode in città novella un’aria buona
per la sfrenata libertà di vita,
non goliardica, no, quasi d’artista.
La dolce affittacamere, padrona
della casa d’Oltrarno,
fa bensì che anch’io sia «sul passo d’Arno»,
ma esita, stordita,
sapendo essa alcunché dell’età ingrata.
Oggi non ho per me chiave di casa.
Rientra il vecchio e suona il campanello.
La casa non è sua come il cervello,
come il fegato e il cuore,
questo come anticuore,
e non è sua la chiave che s’intasa.
Già, padrone di chi? d’un alveare?
di tre stanze, d’un bagno?
Se le stanze son poche, me ne lagno?
e se son molte, a chi le dovrei dare?
Mio veramente il letto
se amato io l’ho, pur non essendo il letto
fatto da San Giuseppe di sei cubiti.
Vecchio di casa, vi dormì la serva
e i sogni suoi, di lei, tutti conserva.
Ora anche i miei. Qui ho da finire. Aspetto.

La cucina

Affacciata sul piccolo cortile interno, la cucina è la stanza più cara alla poesia familiare e quotidiana di Moretti, che amò sempre gli spazi domestici raccolti e rassicuranti. Il poeta aveva dedicato a questo angolo della sua casa un’intera sezione della raccolta poetica Il giardino dei frutti (1916), descrivendola in prosa anche in seguito nel romanzo I puri di cuore (1923), dove ricordava in particolare l’arola, il grande camino per cucinare, e la matra, tipica madia romagnola.
Questa inoltre è la stanza che egli associa più frequentemente all’immagine della madre, figura predominante nella sua esistenza, mitizzata nel culto di Santa Filomena, chiamata nell’affetto “Suor Filomena”, il cui ricordo e la storia vengono affidati, dopo la sua morte, a ben due opere Mia madre (1923) e Il romanzo della mamma (1924).

I puri di cuore, 1923

Un gran cucinone con un’aròla non più alta delle seggiole, una rastrelliera rustica in tre file da cui gocciavano i piatti e la terraglia rustica sul lavandino, una tavola quadrata nel mezzo, un canterano dalla patina nera con gli sportelli che ricordavano le porte delle chiese barocche e l’alzata a bocca di forno che si restringeva gradatamente in alto e reggeva piatti colorati e stoviglie. La matra bassa sui piedini a sghembo, più corti di dietro per darle una posizione leggermente inclinata e tetragona ai colpi d’impasto, aveva i quattro regoli riportata sulla faccia anteriore a formare il rudimentale ornato di una coppia d’angoli coi vertici in su. Si capiva che questo era il mobile principale e più antico della cucina e della casa: il più antico e il più sacro […]. Le pareti bianche senza quasi più rami appesi, il soffitto leggermente obbliquo e sostenuto da travi e travicelli affumicati e senza più pomodori e il finestrino alto come il finestrino di una prigione, che non si poteva aprire chiudere senza salire, le donne su una sedia, gli uomini su uno sgabello, dicevan che quella cucina aveva seguito le sorti della famiglia: antica, patriarcale e decaduta.

Vecchia cucina, in Le poverazze, 1973

«Or che al timone della navicella
è lei, non io, qui tutto è da rifare
come in un alveare,
celle e favi, distrutto.
Non s’aveva noi sala
da pranzo per il gran pranzo di gala,
né ofis come credenza o dispensa
per la cucina. Semplice tinello
s’aveva ove più casta era la mensa.
E neppur questo si vuol più, rimasti
come siamo all’asciutto,
sì che in cucina prenderemo i pasti.»
«Ma questa sia da vecchia la più bella,
né manchi di tagliere e matterello,
dei rami d’una volta,
e fin dell’orologio contadino.»
«E che dia sui giardino
per cogliervi l’origano e il basilico.»
«Ebbene, amico, ascolta.
Aboliti i segreti
della famiglia. Tutto allo scoperto.
Non più intorno il deserto.
Questo fino alla fine con Gesù.
E… non quod ego volo, sed quod tu.»

Il corridoio e le scale

All’amicizia Moretti ha intitolato le pareti dell’andito e della scala, vera e propria galleria di stampe raffiguranti sovente i luoghi natali dei vari compagni d’arte (Pirandello, Papini, Juliette Bertrand, Palazzeschi, Ojetti, Marcel Brion, Mondadori, e moltissimi altri), da essi donate e firmate.
Continuano le nicchie che accolgono i libri dello scrittore. Vi si trovano, fra gli altri, i libri di viaggio alcuni tomi della Guida ragionata dell’Italia diretta da Bertarelli e una decina di Guides Baedeker, con una sezione dedicata alla Romagna.
Proseguendo, sulle scale si trova la nicchia con le opere straniere, in prevalenza narrativa, in traduzione italiana. Ad alcuni classici dell’Ottocento francese e russo, il nucleo più antico della biblioteca, fa seguito la collezione della Medusa di Mondadori.

Orario ferroviario, in Poesie di tutti i giorni, 1911

Allineati dietro quel cristallo
dicono i libri miei titoli e prezzi:
dove sei tu, mio buon libretto giallo
unico libro che ora io cerchi e apprezzi?
Modesto sei come il mio canto, piccolo
come il mio cuore che non teme indagine.
Ecco, non sei più grande d’un fascicolo
ed hai trecento quattrocento pagine.
Tutte conosci le città dei miei
sogni e paesi che non vedrò mai;
tutte le strade che saper vorrei
come per insegnarle tu sai.

Porta di casa, in Diario senza le date, 1974

Non è serrata la porta di casa.
Noi non vorremo chiuderla più mai.
Nel corridoio stretto
manca il paletto,
manca il paletto, figlio, e tu lo sai.
Non è serrata la porta di casa.
La casa è tante cose ed è la porta.
La porta è il saliscendi, è la chiusura.
Ma non già sepoltura,
figlio, ché non è morta,
neppur malata grave,
neppure in senso vago,
e con un niente al posto della chiave
sì che ad aprirla basti oggi uno spago.
E… qui dentro? Non so come e perché
quasi tutte le porte
fan pensare alla morte,
tanto più quando s’aprono da sé:
maniglia scatta e insieme trema un vetro.
Non per carro che passa,
per qualcosa di tetro
che ci ricorda il legno della cassa
se ciascuno in sua soglia ha la sua sorte.

La camera

È il luogo dove, più che altrove e insieme al dismesso alcova, Moretti custodisce il bagaglio dei suoi affetti: la famiglia (la madre anzitutto) e gli amici. Luogo intimo per eccellenza, insieme ai mobili «ovunque spaiati», qui, rimangono solo le immagini delle persone più care, e alcuni suoi ritratti fotografici e dipinti.
Campeggia sul comò stile impero la scultura realizzata da Arnaldo Pomodoro per Mondadori, dono per gli «scrittori di punta» nel 1973.
E qui ancora parlano del padrone di casa gli oggetti della sua poesia: la vecchia «valigia di cinghiale» testimone degli innumerevoli viaggi, l’inseparabile basco, l’ingombrante armadio, il letto a barca e la «porta che parla»… 

La stanza, in Le poverazze, 1973

«Hai tanto meditato anno per anno,
e solo hai guadagnato
di saper dir le cose come stanno.»
«Non altro ho fatto e dato,
non altro ho avuto se ne ho fatto senza.»
«Da tutto ciò il rigore umile-audace
della tua permanenza?»
«Ma almeno io so quello che i più non sanno.
E di questo son certo,
che in ogni luogo, in ogni circostanza
ho perduto, all’aperto.»
«Di te pur si ragiona…» «Anche si tace.
Così nella mia pace
io son colui che vince in questa stanza.»

L’armadio, in L’ultima estate, 1969

Ingombrante l’armadio nella stanza.
E i viluppi cadenti d’ogni gruccia
sono la nostra buccia
più che la nostra verosimiglianza.
Così mi sembra lugubre l’armadio.
L’apro come per scegliervi un vestito,
ma ciò m’è proibito
se a vestir bene occorre pompa e gaudio.
E ci sarà qualcuno, non un servo,
che domani mi vesta e che mi spogli
che lì dentro conservo?
Pochi vestiti ha questo
squallido ganimede
cui basta il vecchio e logoro che indossa.
Armadio che sai l’area della fossa,
vesti presto un erede, presto, figliolo, presto, se pur si troverà qualcuno ch’abbia
la mia taglia e con essa la mia fede,
il mio bene, il mio male e la mia rabbia.

Gommapiuma, in Diari senza le date, 1974

Un amico un bel giorno mi regala
qualcosa che mi manca, una poltrona
che fatta sembra per una padrona
di casa immensa quando vi si cala.
Chi così vi sprofonda, e parla e fuma,
di tanta vastità poco si cura,
ma allora il molle dell’imbottitura
faceva il vanto della gommapiuma.
[…]
E già non vi sedetti: la lasciai
agli amici venuti a visitarmi:
di lì dava il Panzini i suoi allarmi,
di lì lo stesso chiamava i suoi guai.
[…]
Ora seduto, che malinconia!

Lo studio

È il cuore della casa con l’angolo di lavoro dello scrittore, forse l’unico rimasto davvero intatto. L’assetto complessivo della stanza tuttavia non è molto diverso da quello già presente fin dai primi decenni del secolo e comunque è sostanzialmente quello ritratto con Moretti nelle foto degli anni Cinquanta: lo scaffale quadrato e il divano, la poltrona donata dall’amico Panzini, il tavolino che fa da scrivania, stretto «quanto un banco di scuola» e senza cassetto, la foto della madre Filomena, gli inchiostri, i pennini, le forbici, la cartella frusta dono della «Scena Illustrata» 1899: l’«officina» dello scrittore, insomma. 
Nello studio sono collocati altri nuclei della «libreria casalinga» morettiana, di narrativa e di poesia italiana accanto allo scrittoio, mentre la libreria fra le due finestre ospita la critica letteraria e la saggistica che si occupò di Moretti.
La pesante tenda a panneggio separa l’alcova, ieri angolo riparato di riposo, oggi semplice ambiente capace di accogliere gli allestimenti temporanei, poiché l’arredo non c’è più.

La prima cartella, in Scrivere non è necessario, 1938

È giusto ch’io dia prima un’occhiata al mio tavolino, com’è giusto che il disordine vi regni sovrano e resti appena il posto sufficiente per assicurare la libertà e comodità della cartella. […] Non mancano, sul mio tavolino, le grandi forbici lucenti e il barattolo della colla. lo scrittore deve scrivere ma anche tagliare e incollare. […] Quanto alla penna, scrivo, ecco, con un’asticella da pochi soldi. Il pennino è quasi sempre spuntato, ma – non so bene perché – mi incaponisco a farlo durare.

L’officina, in Tre anni e un giorno, 1969

Ho rimesso l’inchiostro
nel calamaio e la punta alla penna
e per quello che ho fatto un po’ straluno
gli occhi irritati. E penso: se qualcuno
ha visto questo mio preparativo,
qualcuno che di solito ci spenna
già mi scortica vivo
senza essere feroce.
Se durando il buon cuore e il buon inchiostro,
si cominciasse con un paternostro?
O non val meglio un buon segno di croce?
Proprio il segno di croce,
se lo si fa senz’altro atto e parola.
Non lo imparammo a scuola
e dalla stessa voce
di colei che indicava il crocifisso?
È da quell’ora che taccio e non risso.
Né chiedo a Dio di scrivere un po’ meglio
per non voler, altero, troppo poco,
ché questo è appena un gioco
in cui s’arrischia, non un bimbo, un veglio,
se ai piedi di chi «gioca» ecco l’abisso.
Poi si sa che non voglio
che la mia stanza assurga ad officina
come un tempo voleva un altro orgoglio.
Non ho strumenti adatti
che non sia la mia penna, altro bulino
che non sia quel po’ d’oro del pennino.
E non ho nemmen piatti
per dipingervi fiori, uccelli, gatti,
la lupa, il Campidoglio:
proprio ciò che non voglio.
Oh, non è la mia stanza un’officina,
non ho compassi, regoli, matite,
non leve, non scalpelli,
punzoni, morse, spatole, fornelli.
Ecco le mani. Non sono pulite?
Solo – d’inchiostro – qualche macchiolina.

Il tavolino, in Tre anni e un giorno, 1969

Guardo oggi il tavolino su cui scrivo.
Un tavolino stretto,
scomodo forse ai più, senza cassetto.
Ma tutto sa di me tardivo o attivo.
Un tavolo che parla parla parla,
spesso è tutta una ciarla.
Su questa sciagurata
cartella scrissi sbagliando la data
delle lettere e tante
vane-vacue parole. Anche una buona
di quando in quando, un verso, un’ora nona,
musicante, festante.
Forse ho cosa più mia
d’un tavolino, non già scrivania?
Così tutto appoggiato alla parete
un tavolino ciancia e si ripete.
Or che se ne farà dopo tant’anni
e tanti libri, uno che lo vorrà?

Il giardino

Attraversando il lungo e stretto corridoio, si accede al piccolo giardino interno che conduce alla legnaia, recentemente restaurata. L’hortulus animae, il brolo con le pareti, ancora conserva il pozzo col secchio, le rose e la pianta del calicanto di Suor Filomena, le ceramiche di gusto robbiano portate da Palazzeschi e – fino all’inverno del 2003 – la centenaria Cunegonda, la tartaruga che col gatto e il cane ricomponeva un «terzetto» assai caro allo scrittore, come ricordano le pagine dei Grilli di Pazzo Pazzi.
L’immagine del giardino chiuso, simbolo primo-novecentesco di nostalgia per un passato perduto, richiama quello spazio delimitato meno malinconico ma raccolto, intimo, e rassicurante che divenne topos crepuscolare, ma ancor più morettiano, rifugio del poeta che in verso invitava: cercatemi in giardino.

 

Brolo con le pareti, in Diario senza le date, 1974

Il brolo non è che un cortile
murato, con placide mura,
ch’ebbe di me quasi cura
scoprendomi triste non vile.
Già amò queste pareti l’infante
come quelle della sua stanza
quando lo legarono, senza speranza
per lui, in età minorile,
col solo filo d’un rampicante.

Giardino dietro casa, in L’ultima estate, 1971

Dopo tanti anni non più hortus animae,
non più hortus conclusus,
non più hortus larvarum,
dopo tanti anni più vero è il giardino
oggi senza latino.
Cercatemi in giardino.
Tanto più vero e rozzo
anche in verso, anche in prosa.
Vi fiorisce l’anemone e la rosa,
vi stride la carrucola del pozzo.
E al secchio si berrà come in cammino.
Cercatemi in giardino.

Hortulus, in Tutte le poesie, 1966

Io non odo i miei passi sul tappeto
d’erba su cui m’aggiro
contenendo il più piccolo respiro
come per cura d’essere discreto.
Ricordare qui è dolce. Ogni fil d’erba
potrebbe ricordare
ché molto sa. Quante memorie care
questo stretto recinto anche ci serba.
Qui si può amare e il crisantemo e il verme
e il vaso della menta,
l’ultimo cespo e la corolla spenta,
la foglia secca e le fogliette inferme.
Esser qui sempre come un’ombra, come
un’indistinta forma di passante;
restare fra le piante
non più di un’ombra, che, fra tante, ha un nome.

L’Ufficio

La stanza che fu negli ultimi anni la camera da letto di Ines è divenuta la sala di consultazione e di studio dei materiali conservati a Casa Moretti. Cuore operativo dell’istituto che promuove attività culturali e di ricerca, oltre che di conservazione, tutela e valorizzazione del proprio patrimonio. Il fondo morettiano, eterogeneo per tipologia e consistenza dei materiali, rappresenta un prezioso unicum dove libri, carte, documenti, fotografie, quadri e mobili dialogano fra loro e restituiscono a tutto tondo la fisionomia più autentica del padrone di casa, e ricostruiscono il contesto letterario in cui egli ha operato.
Favorendo la ricerca, l’istituto tra le altre attività culturali e per la didattica, dal 1993 promuove anche il «Premio biennale Marino Moretti per opere di filologia, critica e storia letteraria». Dal 1997 si pubblica la rivista «Archivi del Nuovo».

Calendario, in Diario senza le date, 1974

Forse la casa teme anch’essa e attende
La mia fine per essere abbattuta:
talvolta è fredda e muta
e se scricchiola narra sue vicende.
Che parli di me, questo s’intende.

L’archivio, in L’ultima estate, 1971

L’archivio dei ricordi ci divora.
Dirò come preludio
che nel mio chiuso studio
c’è il tramonto e l’aurora,
ed è questa che sorge dal tramonto
come a mio benefizio
dacché son vecchio e ho il vizio
mentale del raffronto.
Resta nel cuore e insieme nel cervello
questo tacito archivio
se mi rimetto col suo amaro al bivio
che desti il mio corruccio, il mio rovello.
Per me tenera cosa (ed anche scaltra)
è archiviare realtà e memoria
ché l’una oggi si gloria
in segreto dell’altra.
Filze di scatoloni alle pareti,
lettere e vecchie carte.
Ecco i compagni d’arte
con loro ansie segrete.
Oh, non pareti nude
che esprimano claustrali echi e dissensi,
fra cui l’idea della sorte che chiude
le cinque porticine dei miei sensi,
ma sì l’allegoria di queste lettere
che son la mia famiglia:
l’ultima scheda è quella che consiglia
come un capo d’azienda oggi di smettere.

Dopo, in L’ultima estate, 1971

Io non so che avverrà di questa casa,
s’ella sarà venduta,
s’ella sarà abbattuta,
se diverrà perfino un’altra casa.
Altre porte e finestre, altra cimasa,
altre rondini ed altri davanzali,
altri riposi d’ali.
Altro capo, altre serve, altre famiglie
come altre cose a me care o discare.
Altri libri, altro cibo, altre stoviglie,
altri letti, altre bare.
Che cosa dunque rimarrà di mio
per caso, in queste stanze, o per dispetto?
Chi sa, forse un panchetto,
un panchetto di quando ero bambino
o un’eco incomprensibile, un fruscìo.
Altro mendico va di casa in casa,
di scalino in scalino,
ed altra madre chiama altro Marino
che in altra ora rincasa.

A Casa Moretti si organizzano visite guidate per gruppi, curate in ogni dettaglio per rivivere, grazie alle mura domestiche della casa, ogni momento della vita del poeta.

logo-marineria-verticale-bianco (1)